Dall'Angiolina
Aveva ancora la mano sul chiavistello della portiera quando il Binda gli domandò: - Bevi un'ombretta? - E senza attendere risposta chiamò: - Angiolina, mezzo di bianco! -. L'Angiolina spuntò dai quattro gradini della cantina con una caraffa in mano, si piantò sul tavolo dietro il banco, afferrò la misura di vetro che riempì fin quasi al limite giusto, distese bicchieri e mezzo litro davanti ai due e rimase a guardarli senza una parola, ma con un sorriso grande come il Prato della Valle sul faccione rubicondo. Al di là dell'età sinodale ormai da parecchi anni, di femminile all'Angiolina non era rimasto che il petto largo come il suo banco e il nome. Per questo poteva condurre avanti quasi sempre da sola l'osteria, mentre il suo uomo compariva e scompariva e poteva mirarsi con aria materna gli avventori, parecchi dei quali conosceva fin dall'età in cui giungevano con la bottiglia vuota per la spesa di famiglia e giravano attorno al banco per fargliela riempire. Il Binda colmò i due bicchieri, poi bevvero in silenzio. Nel locale, che guardava la piazza alberata del paese, la luce entrava da due finestre e dai vetri della porta; intorno quattro tavolini con le sedie di paglia, il banco molto semplice e lo scaffale con la mostra dei liquori, bene in vista la licenza relativa, l'unica concessa dalle autorità in quel paese. Le pareti recavano, sotto la linea delle travi, una fascia di affreschi del Cinquecento e sotto un Cristo dipinto da altrettanto tempo, con la sua iscrizione latina: Christus rex, homo factus, venit in pace- Mano il cursore comunale, era con un compagno alle prese con un mazzo di carte. Attorno ad un'altra tavola, sotto uno specchio recante bene in vista la marca di una bevanda di moda, due sordi battevano le carte e due coetanei annuivano con grandi cenni del capo. Facevano più chiasso quei due che non tutti gli altri e le rondini che garrivano attorno al campanile. Volgendosi lentamente in giro, l'ultimo arrivato propose: - Facciamo quattro scarti? -. Il Binda si diede un'occhiata alle mani callose e sporche di terra, tentò di spolverare la giacca consunta, poi si ritrasse dicendo: - Sai, sono appena tornato dal lavoro e in cava non si può badare tanto al fango o alla polvere. Non sono ancora andato a casa a lavarmi un po'! -Alle insistenze dell'altro, però, infilò la porta di cucina dell'Angiolina per darsi una sciacquata e tornò arzillo e pronto ai quattro giri. I due sotto il Cristo dipinto si accomodarono per accogliere i nuovi avversari e l'Angiolina vigilante distese con cura sul tavolino un rettangolo di tovaglia colorata e lo fermò con quattro puntine da disegno. Restò in attesa di ordini, paziente e sorniona, finché Mano, il cursore con tanto di berretto ufficiale calcato stabilmente sulla fronte, proclamò: - Un litro di brulè con chiodi di garofano e la scorzetta di limone! -L'Angiolina scomparve e la briscola incominciò. Quella sera il Binda era afflitto da una fortuna sfacciata e Mano reagiva con grandi pugni sul tavolo e con esclamazioni che poco si intonavano col dipinto sotto il quale le carte passavano.
Ora il compagno non pescava neppure la più piccola briscola per tagliare la passata degli avversari, ora non aveva neppure un carico da aggiungere alla sua presa e, più di tutto, quegli altri pescavano indecentemente le carte superiori. In tutto il paese Mano si riteneva imbattibile e ci sapeva fare anche; ma per quella volta una scalogna nera gli si era seduta a fianco. L'Angiolina approfittò di un istante di pausa per versare dalla grossa cuccuma di ferro smaltato il brulè fumante e riempì adagio i bicchieri, passando diligentemente da uno all'altro sempre lo stesso cucchiaino di ottone affinché il vetro non scoppiasse per il calore. Poi estrasse le bucce di limone che distribuì in ogni bicchiere e depose il vassoio di ferro smaltato sulla tavola dicendo: - Bevete, intanto; chissà che la fortuna si volti! -. Con un "buona sera" masticato fra i denti, arrivò il Mario, cavatore anche lui di trachite, che era già stato a casa dopo il lavoro ed era giunto ripulito e rivestito quasi da festa. Arrivò Santo, che veniva dal podere sul fianco della collina, Bepi, detto il Moro per i capelli come l'ebano e le sopracciglia folte come una macchia di rovi, e Toni "del cantiere". Il giovane Toni sfoggiava una cravatta azzurra con una torre Eiffel dipinta nel mezzo, regalo del fratello emigrato in Francia. Passava l'inverno "lavorando" al cantiere che il Comune istituiva ogni anno per alleviare la disoccupazione. Nelle mattinate più rigide cercava rifugio contro il vento garbino tra i pagliai delle boarie o si affrettava dall'Angiolina per riscaldarsi con qualche bicchiere di brulè. Sorridente, simpatico, Toni si trovava bene in compagnia, anche se aveva i suoi problemi, il maggiore dei quali si aggirava intorno ad una "morosa" che aspettava che egli avesse una occupazione un po' più solida di quella di operaio da cantiere per pensare alle nozze. Di quel cantiere circolava per il paese una storiella, vera o falsa non si sa, ma certamente probabile. In un mattino di gennaio attanagliato da un freddo birbone, una squadra stava ripulendo uno scolo d'acqua dalla terra e dalle foglie morte. A ridosso di un gelso per ripararsi dalle folate assassine, uno degli operai, imbacuccato in un pastrano logoro fino all'osso e incappucciato in una bustina grigioverde col paraorecchi sotto il mento, batteva i denti dal freddo. Il capo cantiere, un geometrino neodiplomato e un po' ingenuo, gli si accosta e con aria di convincerlo gli fa: - Se prendi il badile e ti cali nel fosso a buttar la terra, ti riuscirà anche di riscaldarti. Così non batterai più i denti. - - E' vero! - rispose prontamente l'altro -Ma a battere i denti io non faccio mica fatica! -Quelli del paese se la ridevano al racconto e talvolta Toni ne faceva le spese. Ma quella sera nessuno badava a lui: i sopraggiunti erano tutti intenti a seguire la briscola intavolata fra il Binda e Mano, il cursore. Era sabato sera, tempo di week-end. C'è chi al week-end lascia la città e se la spassa nelle ville di campagna, chi telegrafa il protrarsi di trattative d'affari e poi si scarrozza la ragazza tutta vent'anni per le trattorie e gli alberghetti compiacenti e c'è il week-end al brulè o alla spuma nelle osterie fumose.
Una partita chiama l'altra, finché l'Angiolina, ciondolando dal sonno, conta sul marmo del banco le monete o segna nel suo quaderno sgualcito il debito dei pendenti. Constatata la sfortuna tignosa, Mano sollevò il frontino del suo berretto ufficiale, si alzò e con la voce impastata declamò solennemente: - Io vado al banco, ma ci rivedremo sabato da Formenton, alle Casette. Tu, Binda, devi portare un salame e dopo ci penseremo noi! -Gli altri applaudirono e il Binda, felice della vittoria anche se era una vittoria di Pirro si impegnò per il sabato seguente. Dal mucchio uscì la voce di Santo che promise alcune erbe saporite del suo campo e Toni si offrì di procurare il pane biscotto. Quella sera l'Angiolina potè contare sul marmo parecchie monete più del solito e anche qualche foglio di carta filigrana. Il sabato seguente pareva che la primavera fosse arrivata da mesi. Il sole splendeva nel cielo chiaro e intiepidiva il fianco del colle sul quale si contorceva la strada per Casette. Le robinie erano ancora ischeletrite, ma i ciuffi di erba ai loro piedi tingevano già di verde il pendio e le prode del fosso. Era tempo di viole che i fanciulli del posto raccoglievano a mazzi per offrirle alla maestra; era il tempo di scampagnate sui Colli. Dall'Angiolina sorseggiarono il primo bicchiere del pomeriggio, poi si incamminarono felici come scolari in vacanza. Santo reggeva il suo fagotto di erbe colte nel podere sulla costa del monte; il Binda si stringeva nascosto nella tasca interna della giacca il più grosso salame della sua produzione casalinga; Toni "del cantiere" portava in trionfo il cartoccio del pane biscotto; Mano, il cursore, guidava la troupe, cui si era unito Mario che aveva lasciato a casa per un sabato la giovane moglie. Sotto la grande quercia, cresciuta da più di cento anni proprio nel mezzo della strada, si fermarono non tanto per ammirare il colosso che aveva costretto in quel punto il raddoppio della sede stradale, quanto per rimproverare Toni che aveva proposto di aprire subito il cartoccio di pane biscotto. Li aveva raggiunti un'auto; ma nessuno aveva voluto montare: quella camminata era meglio di dieci aperitivi. Impiegarono più di un'ora a percorrere tre chilometri, pregustando perfino la polenta che Mano era sicuro di trovare da Formenton. Non lo aveva avvertito perché in quella settimana non c'erano stati rapporti di ufficio con la borgata lontana, e, tra una lettera e un'ordinanza del sindaco, avrebbe trovato il modo di annunciare l'arrivo della combriccola. Invece la polenta non la trovarono affatto. Mano si spinse anche sino alle altre case vicine, ma non riuscì a rimediarne neppure una fetta. Su tutti i focolari il paiolo fumava, ma la polenta non era ancora fatta. La delusione non smontò nessuno. Da Formenton, oste, trattore, pizzicagnolo, rivenditore di generi di monopolio, il fuoco era spento. La sposa, già avanti cogli anni, allattava l'ultimo nato; il figlio maggiore stava servendo alcune donne in bottega; il titolare si era recato nella cittadina vicina per alcuni acquisti. Mano, forte del suo berretto di cursore, era di casa; si installò nella cucina, mandò Toni per legna in fondo al cortile, ordinò agli altri di ripulire le erbe, estrasse dalla credenza piatti, posate, terrine, relegò in un'altra stanzetta la madre affinché il figlio poppasse in pace e ben presto nella trattoria deserta vi fu la confusione delle ore di punta. Sulle braci fumiganti il salame del Binda si contorse friggendo e sparse nel locale un profumo invitante. Nella terrina Santo rivoltava con poco olio e tanto aceto le sue erbe saporite e Toni potè aprire finalmente il cartoccio del pane biscotto. Mario ai era assunto il compito del cantiniere e degustava a piccoli sorsi il vino nero prima di servirlo in tavola. Poi giunsero gli autisti, ingaggiati perché si sapeva come si partiva ma non si sapeva come si sarebbe tornati, e la cucina fu strapiena. La padrona non osò neppure mettervi piede dentro, ma essi scovarono tutto l'occorrente con quella specie di radar che era la loro voglia di godere un weed-end al salame e al vino dei Colli. Imbandita la tavola, il silenzio si ristabilì all'improvviso, dopo che Mano aveva diviso e distribuito equamente l'arrosto e spartito in due zuppiere le erbe campestri. Con la bocca piena qualcuno lodò la squisitezza del salame del Binda; gli altri si unirono in coro con grugniti sonori e ampi cenni di capo. Il doppio litro di nero scomparve e Mario entrò nel pieno dell'incarico che si era assunto. Sparì il salame, sparirono le erbe; arrivò il formaggio perché Mano ne aveva ricordato certe virtù eccitanti e le risate allusive si erano indirizzate su Mario giovane sposo, e per contrapposto, su Santo il più anziano della comitiva. Il pane di Toni dovette essere seguito da tutto il raffermo scovato nei cassetti della bottega; per fortuna non venne mai a mancare il vino. Le chiacchiere rimbalzarono tra un bicchiere e l'altro; poi nella cucina non vi fu posto che per il fumo delle sigarette e per i fumi del vino che aveva cominciato a fare il suo dovere. punzecchiarono Toni per la storiella del cantiere; invitarono Santo ad esibirsi in un pezzo d'opera e Santo, levatasi la giacca, salì sulla sedia e lanciò: - Di quella pira l'orrendo fuoco ...- Dopo la fissazione per le sue idee politiche e la terra d'Africa dove aveva combattuto, questa delle opere liriche era la debolezza di Santo.
Il repertorio non variava molto e l'esecuzione era appena degna di un sotto... Scala; ma Santo, quando era un po' su di giri, non era capace di trattenersi: buttava indietro la testa, chiudeva gli occhi, spalancava le braccia e... fuori con la prima romanza che il vino gli suggeriva. Talvolta, se il numero dei giri era piuttosto elevato, la mania esibizionistica lo assaltava come un invasato e lui a tentare di togliersi il gilè, poi la camicia e allora lo tiravano già dalla sedia e lo mettevano in un canto perché i bollori si placassero. Non fu necessario arrivare a questi estremi; lo tirarono già prima. Anche il Binda fu stuzzicato la sua parte. Immemori del salame, mentre egli stava succhiando beato la sua "alfa", gli chiesero: Ridicci il discorso del pubblico accusatore quando ti fecero il processo a Padova. -Egli guardò intorno con gli occhi piccoli e non avrebbe voluto aprire quella ferita che gli sanguinava ancora nel fondo. Aveva diciassette anni il Binda quando nel 1944 la repubblica di Salò affiggeva su tutte le cantonate bandi di arruolamento e proclami minacciosi. Nel podere di suo padre, confinato sul fianco di un colle lontano dal paese, egli inseguiva lucertole e ramarri, si arrampicava sui ciliegi e lavorava di molta malavoglia a rastrellare l'erba per le mucche. Non c'erano giovani in paese; non c'erano neppure uomini: la paura aveva fatto scomparire quei pochi che la guerra non aveva disperso sui vari fronti. Stanco di correre su e giù per le colline da solo, stanco di lavorare i quattro campetti, stanco di mangiare polenta e frutta acerba, il Binda, dopo la trebbiatura, infilò un salame nel tascapane, racimolò alcuni pezzi di "schisotto" e si trovò insaccato in una divisa da militare con due fasci alle mostrine. La camicia nera gli andava larga di collo e lunga di maniche; il resto riusciva a dare un po' di gonfiore ai pantaloni che non cadessero. Fu sbattuto qua e là per i grossi paesi della provincia, in caserme improvvisate e fetenti, con pasti che erano luculliani al confronto della polenta di casa, ma sempre scarsi per la fame dei diciott'anni. Impiegato in rastrellamenti di coetanei, il Binda usciva con il suo comandante ed era l'ultimo a smontare dal camion prima della operazione e il primo a risalirvi, sbatacchiando ogni volta quel mitra che gli pendeva dal collo magro. Al momento della liberazione fu trovato con i pantaloni grigioverdi e con le scarpe militari, anche se era riuscito a disfarsi del resto della divisa.
Fu rinchiuso in un carcere ancor più fetente delle caserme che aveva fino allora frequentato, in mezzo ad un groviglio di commilitoni accatastati come animali da macello. Un giorno, in un'aula del tribunale, il pubblico accusatore si levò a dire ai giudici del tribunale speciale: - Ecco l'uomo dalla furberia diabolica, che si nascondeva dietro i pilastri dei portici, che aspettava la preda come la tigre nella giungla, che seviziava le donne e atterriva i bambini...-. - Proprio io - aggiungeva a questo punto il Binda - che non ho neppure il coraggio di tirare li collo ad un pollo e che sono angariato da mia moglie ogni volta che c'è bisogno di questa fattura in casa mia! - Si prese tre anni di condanna, tre anni nei quali ebbe il modo di fotografare nella memoria il volto e le parole dell'accusatore, Sapeva chi era, dove viveva, che incarico politico aveva conseguito per le sue benemerenze partigiane; ma il Binda conservava quel filo di rancore velato da una bonomia che gli permetteva di riderci su. L'uomo dalla furberia diabolica procurava salami casalinghi agli amici e pagava spesso da bere nella osteria dell'Angiolina. Quella sera ripetè la filippica con l'aggiunta delle sue osservazioni personali e le risate empirono la cucina fumosa. Fuori il buio era calato da un pezzo, quando la comitiva barcollante uscì all'aria fredda. Riuscirono, come Dio volle, a stivarsi nelle due seicento che partirono a tutto gas sciabolando i fari nella oscurità della notte. L'aria entrava fischiando dai finestrini e ne uscivano note di canzoni che andavano a svegliare i cani addormentati sulle aie. La corsa breve terminò davanti all'Angiolina dove il solito gruppo di paesani stava centellinando il suo sabato sera. Entrarono come una folata di marzo, sbattendo le palpebre sugli occhi lucidi e dispensarono manate e saluti come fossero tornati dopo un secolo dalle Americhe. Il cuore dell'Angiolina ai allargò di tenerezza. All'indomani, mezzogiorno era trascorso da un pezzo quando la giovane sposa di Mario, stanca di trovarsi da sola dinnanzi al piatto della pastasciutta coi piselli, salì in camera dove il suo uomo russava con la testa sotto il cuscino. Lo scosse adagio, lo chiamò. - Questa mattina non ho voglia di andare a lavorare - bofonchiò il Mario con gli occhi chiusi - Vada in malora anche il padrone e la sua cava! La moglie discreta lo lasciò nella beata certezza di aver marinato per un giorno il lavoro fastidioso. Per lui e per gli altri continuava il dolce week-end al salame e al bianco dei Colli. L'Angiolina nel suo locale dagli affreschi cinquecenteschi continuava a dispensare il suo sorriso grande come il Prato della Valle, tenero e comprensivo come quello di una madre.