Terralba
La siepe di biancospino incorona il ciglio della strada che sale capricciosa su questo dosso: a marzo è una corona di stelle bianche, a giugno un tetto di verde, a novembre un filare di bronchi neri incurvati dal rovaio. Sotto la siepe la scarpata mostra il biancore del calcare, sul bianco calcare si arrampica la strada tortuosa, sul fossato ricavato nel calcare scivola l’acqua piovana. Tutto è bianco sul tuo crinale, o Terralba, bianca terra dei Colli, forse vicina e forse confinata in un mondo lontano da noi e dal nostro tempo. Tra argilla, tufo e calcare le vigne allineate come plotoni di fanti seguono le ondulazioni del terreno: ora si stagliano sopra una cresta, ora discendono in un avvallamento. Ma il sole le passa in rivista dal primo oriente fin quasi all’ora del tramonto ed esse germogliano, fioriscono e fruttificano con una vigoria che è la tua gioia e la tua gloria, o Terralba. Bianchi sono i fiori dei mandorli al primo sole, bianchi i ciliegi che fioriscono a Pasqua, bianchi i grappoli delle robinie che olezzano un profumo dolciastro dopo la pioggia dei primi temporali. Le poche casupole si distendono sulle aie di calcare, dove razzolano bambini e cani, galline e tacchine mentre gli uomini e le donne sono dispersi per i campi. Un forestiero che capita da queste parti è oggetto di curiosità: sul limitare del cortile si allineano i fanciulli; dalle porte si affacciano le massaie con i bruscoli in mano; sotto i filari i coloni drizzano la schiena e volgono il capo. Non succede spesso che qualcuno abbandoni la strada asfaltata per salire a Terralba. Eppure in alto, ben piantato su solide fondamenta, domina un edificio che chiamano il Castelletto. Non ha nulla di speciale da farlo assomigliare ad una fortezza o ad un nido di predatori. Soltanto una merlatura nasconde le grondaie e pare più i dentini di un lattante che i merli di un castello. Però, da lontano, questo ornamento riesce a fare un po’ medioevo e a giustificare la denominazione che gli è stata attribuita. E’ una villa disabitata che i proprietari forse non sanno neppure di possedere. I palazzi sul Canal Grande o le dimore sui quieti campielli di Venezia riescono facilmente a far dimenticare queste case di campagna che sono rimaste immutate da secoli. Lassù non arriva, oggi, neppure la luce elettrica.
L'architettura la denuncia una costruzione dell'Ottocento, ma quelle pietre hanno visto sicuramente parecchie generazioni e l'ultimo rifacimento del secolo scorso è quello che ora dona a Tertalba l'unico motivo di orgoglio: il Castelletto. Ci siamo arrivati col fratello Severino, dopo aver sgroppato l'ultima salitaccia che l'utilitaria era riuscita a malapena a superare sbuffando. Dietro la villa, incollata alla parete, si accovacciava la bassa casa del custode - colono e si apriva un cortile per la modesta fattoria. Eravamo giunti fuori del mondo. - Beh, che te ne pare? - esclamò Severino, volgendosi lentamente in giro. Sarà stata l'ora in cui, ormai prossimo il tramonto, il Colle Cecilia allungava l'ombra del suo cucuzzolo sul costone di Terralba, sarà stata la solitudine interrotta dallo starnazzare dei polli non abituati al rumore delle macchine, sarà stato il colore dei muri a tramontana, il fatto è che avemmo l'impressione che lassù il calendario fosse rimasto fermo a parecchi anni fa. Un giovane cane da caccia, legato suo malgrado ad una pesante catena, scivolò scodinzolando vicino a noi, senza emettere un latrato. Due tacchini rubicondi ci lanciarono da dietro la rete il loro grido gorgogliante. I piccioni si rifugiarono frusciando sulle loro alte colombaie. Un folto cespuglio di alloro ostentava il trofeo delle inutili bacche, delle quali era nero il terreno all'intorno. Di fronte alla casa, chiudeva il cortile una stalla col portico e il fienile quasi vuoto; dall'altro lato, a ridosso del monte, le ultime mele della raccolta marcivano lentamente accanto alla casupoletta del porcile e all'abbeveratoio. Sopra la vasca pendeva un rubinetto che ci è parso l’unico segno di modernità. L’acqua corrente non viene certo dall’acquedotto cittadino! Immediatamente sopra c’è una vasca più grande che raccoglie l’acqua piovana e quella poca che filtra dalle pendici del colle; dopo un piovasco è gialla come la melassa. Soltanto dopo un certo periodo acquista una limpidezza passabile. - Quando è torbida e melmosa, che cosa bevono gli animali? - abbiamo chiesto ingenuamente e forse oziosamente. - Sempre questa. - ci è stato risposto - Per essi non c’è possibilità di scelta. Le bottiglie dell’acqua minerale non arrivano a Terralba! Fermi in mezzo al cortile, abbiamo posato gli occhi su quella tranquillità georgica e improvvisamente i secoli ci hanno mostrato il loro biglietto da visita. Sulla facciata posteriore della villa alcune eleganti colonnine ci hanno rivelato un loggiato cieco; tre, quattro pietre murate alla rinfusa ci hanno ostentato alcuni stemmi gentilizi; poi un distico latino, scolpito su un rigo di pietra, ha bloccato la nostra attenzione: BONIS MALISQVE PAR ADITVS DISPAR EXITUS «L’ingresso è uguale tanto per i buoni che per i malvagi, ma ben diversa ne è la dipartita». Questa massima, buttata lì sulla parete, ci ha impressionato.
Già è vero! Anche a Terralba ci possono essere buoni e cattivi; ma l’affermazione ci è sembrata, lì, un po’ fuori luogo. Ci pareva impossibile che in quell’oasi di pace potessero allignare i malvagi; tra l’altro, non sapevamo proprio come avrebbero trovato le occasioni per esercitarsi! Una spiegazione ci è stata fornita dalla tradizione locale che racconta come in quel sito esistesse nel lontano passato un convento o comunque la dimora di qualche famiglia religiosa. L’iscrizione latina vi trovava bene il suo posto allora; è rimasta imprigionata nella pietra e il suo monito scivola attraverso i secoli come soggetto di meditazione sempre valido e di attualità. Nè le sorprese erano finite al Castelletto. Davanti al gradino di un ingresso secondario ci fu mostrata la pietra tombale con l’arma di una nobile famiglia padovana ora estinta. Un leggero strato di fango e di foglie morte la copriva e ci ha dato l’impressione di affondare nell’oblio lentamente e inesorabilmente come i titolati intestatari dell’iscrizione che vi dormivano sotto il sonno dell’eternità In compenso erano vivi i passeri che approdavano in un vicino boschetto di bambù e riempivano di cicaleccio l’angolo abbandonato del giardino. Vivi e cinguettanti saltellavano tra i rami leggeri e il cagnolo da caccia vi ciondolava accanto, preoccupato più della catena che della preda. Nel giardinetto squallido i viali si smarrivano sotto la gramigna e i ciuffi delle ortensie gonfiavano sulle punte ancora secche le loro gemme. Tra gli arbusti e gli alberelli, proprio davanti alla scalinata del prospetto, due eleganti palme agitavano il loro verde pom-pom sul fusto esile. Tutto lasciava credere che un tempo quel giardino curato potesse benissimo riparare le ore delle chiacchiere nell’ozio pomeridiano e serale. Salita la breve scalinata, protetta da una volta di gelsomini, davanti alla villa si apriva un pianerottolo cintato da ringhiera. Ma lo sguardo nostro si posò subito sull’architrave marmorea dove era incisa addirittura una frase greca. Severino volle subito sapere il significato, ma le nostre modestissime cognizioni della lingua di Omero ci aiutarono appena a leggere le tre parole. Più tardi, con l’ausilio dei manuali rispolverati dalla biblioteca, siamo riusciti a trovarne una interpretazione passabile. La frase era un cortese invito ad entrare e a servirsi, come nella primitiva tradizione della civiltà ellenica. E ci è parso che questa iscrizione non fosse affatto fuori luogo, come lo era forse quella latina: l’ospitalità sacra degli antichi ben si addiceva al Castelletto di Terralba. Naturalmente non siamo entrati nella villa chiusa. L’ora tarda e le ombre incombenti da ogni angolo non ci permisero di varcare la soglia a consumare cerini e zolfanelli. Nelle stanze prive di impianto di illuminazione elettrica gli spiriti degli antichi signori di Terralba potevano continuare, senza intrusi, i loro lunghi conversari intercalati di «ciàcole», di madrigali galanti, di frasi sussurrate dietro i ventagli, nell’ora della cena consumata al lume dei doppieri, nella pace di un angolo circonfuso di serenità. Trovammo l’ospitalità antica nella casa del custode colono. Il sor Attilio, segalino e nodoso come un ulivo, tornato allora dai campi con la roncola appesa alla cintura e le forbici da vigne in mano ci invitò, con l’insistenza fatta di parole semplici ma persuasive della gente dei Colli, ad entrare nella sua casa. Sette figli gagliardi, cinque maschi e due femmine, vanta il sor Attilio. - Celestina se n’è andata - egli ci disse - Ha trovato il suo uomo ed ora gli sta allevando due figli. Pietro si è sposato e abita nella cittadina vicina, dove fa il muratore. Gli altri sono ancora qui con me. Artemio, il maggiore, spalancò intanto il portone di una specie di tinello, perché la luce del giorno morente entrasse a far risparmiare il lume a petrolio. Badando alle connessure dei quadroni di trachite, ci sedemmo attorno alla tavola su cui troneggiava un vaso di fiori di plastica. Alle pareti due grandi fotografie del padre e della madre del sor Attilio pendevano in avanti, cui facevano corona altre foto diligentemente incorniciate. Le ultime dei nipotini penzolavano infilate in un angolo fra il vetro e la cornice. Non c’era disordine in quella squallida semplicità: le pareti di un giallino chiaro tinte a calce, il soffitto di travi e tavole bianco di calce, il pavimento di pietra pulito. Vi si notava la mano di una donna. Nella cucina accanto sora Angela, piccola, vestita di nero, ciabattava attorno alla cucina economica e la figlia Argenide affrontava i primi preparativi della cena. Non riuscimmo a vederle, ma sentivamo il loro tramestio quando Vittorino, il secondo figlio, passò a prelevare il boccale di vetro e il vassoio dei bicchieri. Gianni, l’ultimo della nidiata, ci stava attorno fin dal momento in cui eravamo giunti sull’aia ed era quello che più ci invitava a scusare la modestia del luogo e le scarse attrattive della ospitalità. Gianni era il più moderno e forse il più preoccupato, anche perché aveva già ricevuto la «cartolina» per presentarsi di leva al distretto militare. Aveva ormai nel sangue la voglia di andarsene da Terralba perché era colui che più di tutti avvertiva il disagio di abitare lontano dal consorzio civile. Ma non gradiva che la prima esperienza di vita lontano da Terralba fosse per lui con le stellette al bavero della giacca militare.
Artemio, che aveva consumato la sua giovinezza sulle ambe dell’Etiopia, sui deserti della Libia e tra i reticolati della prigionia, Artemio, che più vicino alla cinquantina che ai quarant’anni aveva dovuto rinunciare a formarsi una famiglia, lo canzonava bonariamente, lui caporal maggiore portatreppiede di una mitragliatrice Breda, robusto come una quercia, duro come la trachite dei Colli, tenace come le macchie dei rovi. La tristezza, però, gliela leggemmo noi nel fondo degli occhi chiari che risaltavano maggiormente sul volto bruciato dal sole. E mentre si accendeva nel ricordo di un passato intessuto soltanto di rischi e di rinunce, ci è parso il più maltrattato degli eroi domestici, al quale la patria e la società, per la quale aveva immolato gli anni più splendidi della sua vita, non davano ancora una casa che si potesse chiamare tale e due fili di rame da cui ricavare un po’ di luce per rischiarare la sua solitudine. Vittorino, taciturno per la sua lunga dimestichezza con gli animali della stalla, se ne venne dalla cantina con un boccale colmo e un salame profumato. Allora l’ospitalità di Terralba imboccò la via della tradizione antica, della tradizione di un tempo lontano in cui non gracchiavano le mitragliatrici del caporal maggiore Artemio e sulle giovani reclute non incombeva il servizio militare, ma esisteva soltanto il dovere di accogliere il forestiero con la tavola imbandita e i boccali colmi di vino generoso. Con il fratello Severino restammo così a centellinare l’ospitalità del sor Attilio finché nei bicchieri si potè travasare sollevando la caraffa, sul vano della porta, contro il cielo che si andava rischiarando per la luna. Poi i fari dell’auto sciabolarono sul cortile un fiotto violento di luce. Il cagnolo uggiolò trascinando la catena sul filo di ferro; Vittorino partì per far allattare i vitelli che muggivano lamentando la inusitata trascuratezza; Gianni si arrampicò su un mandorlo a strappare i rami fioriti in tecnicolor perché portassimo alle nostre spose un omaggio di Terralba. Rombando sull’ultimo strappo, giunse anche la motoretta di Virginio, il figlio che non avevamo ancora visto. Muratore anche lui in un'impresa edilizia della vicina cittadina, si era trattenuto perché Virginio aveva la «morosa» e il tempo delle nozze era vicino. Se ne andranno tutti di lassù; ormai è deciso. I padroni di Venezia trascurano questa che forse è una parte trascurabile del loro patrimonio. Il Comune, povero Comune impegnato fino allo spasimo in un bilancio striminzito, non ha alcuna disponibilità per le quattro case ed essi se ne andranno perché, anche a voler essere di modestissime pretese, troppo stridente e svantaggioso per Terralba è il contrasto tra le luci al neon e il lume a petrolio. Il sor Attilio e i ragazzi, tenaci come la gramigna, si sono già tirata su una casa da cristiani in pianura, risparmiando lira su lira e costruendola con le loro stesse mani. Al Castelletto saliranno finché, e se otterranno condizioni accettabili. Poi forse altri miserabili tenteranno dl resistere in quello squallore e, se non ci saranno, Terralba affonderà tra le macchie di biancospino, quietamente. Sulla porta, diventata ormai nera come un antro, sora Angela e sua figlia Argenide si affacciarono timidamente a salutarci, numi tutelari di una famiglia patriarcale il cui diritto e la potestà sono ancora saldi nelle mani dell’uomo. Il vecchio Attilio e il primogenito si chinarono ai finestrini della macchina per allungarci l’ultima stretta di mano e l’ultima raccomandazione ad essere prudenti lungo la discesa del Castelletto. Poi Terralba scivolò alle nostre spalle e ripiombò nel suo silenzio e nella sua oscurità. Ma avevamo con noi fasci di mandorli fioriti, sapore dei prodotti casalinghi, ricordo dolcissimo di una ospitalità antica, o Terralba, bianca terra dei Colli Euganei, forse vicina forse lontana da noi e dal nostro tempo.