Caldevigo
Contrada Caldevigo, che si stende modesta e sonnolenta lungo la via pedemontana dei Colli, diventata da poco nientemeno che la Statale 247, prolunga la città verso ponente con poche case, qualche campetto e una industria rumorosa. Al di là si apre la campagna dalle zolle nere, larga, grassa, silenziosa; al di qua la cittadina comincia a mostrare il suo volto, il profilo della pineta, i merli del vecchio castello e la rotonda mole del Duomo. I muriccioli di recinzione rosseggiano di nudi mattoni, se il sole li guarda o hanno un volto verdastro di muschio e di polvere, se il destino li ha confinati nel regno della tramontana perpetua. Le siepi di olmo e di spine acute fanno ancora barriera alla strada nei tratti che le case lasciano sempre più liberi mano a mano che la via si allontana tra le radici delle colline e i campi aperti. Platani ancor giovani ombreggiano l'asfalto nei mesi del sole o gocciano umidità nella lunga stagione della nebbia. L'argine del Bisatto preclude dalla parte del mezzogiorno ogni tentativo di espansione della contrada, mentre il pendio collinare, anche se lieve, respinge dal suo lato ogni assalto del progresso edilizio. Le case che si vedono sono quelle del secolo scorso: case di periferia agreste con il portico, il fienile e la stalla quelle più lontane; case di periferia urbana quelle più vicine al ponte S. Pietro con qualche pretesa di villetta, di negozio o di bottega artigiana. Addirittura c'è un'isola di vecchiume con casupole basse e imbronciate, con baracche coperte di bande arrugginite, con orticelli intristiti di erbe volgari in quel tratto a ridosso dell'argine che è stato sventrato alcuni decenni fa per allargare la strada che prima imboccava dritta dritta la via S. Stefano. Su, a mezza costa, ridono beate nel sole le case dei Masiero, dei Pressendo e dei Montato con i neri occhi delle finestre spalancate sul piano. Un palazzotto a fregi ottocenteschi in rosso e giallo, con la torre che non sai se serva da abitazione civile o da colombaia, sta piantato su un crinale. E' il limite da cui si può scorgere la città. Oltre, esistono altre abitazioni sparse qua e là lungo la Statale o fino al Belvedere, terra di Calaone, ma siamo in un altro mondo, nell'arcadica regione della quiete e della pace agreste che vegeta secondo il ritmo antico del grano e della vite, del ciliegio e dell'ulivo. In fondo, prima che l'arteria principale svolti ad una curva che ti porta quasi fuori del mondo, c'è un rubinetto che gocciola da un rettangolo di muro.
Lo chiamano ancora "la pompa" perché un tempo la costruzione dava acqua altalenando la leva dalla maniglia cigolante e dissetava i muli, i somari e gli uomini che trascinavano dalle cave alte i carichi della trachite euganea o la terra rossa per le fabbriche di ceramica. Le carriole erano grossi imbuti di legno con tre piccole ruote tutte piene, con due stanghe per la guida, due ganci per l'attacco del tiro e un freno azionato da una leva a corda. Un uomo solo guidava il mulo, spostava la carriola nelle curve a furia di spinte, tirava il freno, imprecava all'animale, malediceva alle pietre e ai fossati della strada, sudava le sette camicie e tornava a salire e discendere con il suo carico di miseria e di schiavitù bestiale. Alla pompa attendevano i carrettieri che travasavano il materiale sul carretto dalle alte ruote e ripartivano sotto il sole tra la polvere sollevata dalle bestie che perdevano le ultime gocce d'acqua dalle froge spalancate sotto lo sforzo. Come sembrano lontani quei tempi, ora che gli autotreni passano rombando come furie accanto alla pompa quasi inutile! A ridosso della prima collina un Crocefisso di legno imbiancato spalanca le braccia su tanto silenzio. Sotto le tavole del tetto sporgente, sul capo incoronato di spine, sui bracci della croce i passeri dormono alla notte per cantare nell'alba al sole che spunta dietro il Palazzo del Principe. Alla pompa i montanari lavano le scarpe infangate di quella terra che si incolla tenace o sostano per respirare un attimo sotto i cesti della frutta appesi all'arco di legno. Le stradette salgono fra tumuli di calcare biancastro o sotto un arco continuo di robinie per trovare qualche aia ingombra di sole, di pulcini, di bimbi e di cani. Caldevigo è la prima apparizione della civiltà per chi resta sei giorni attorno alle vigne, sui campetti grandi come sciarpe e scende per la Messa della domenica e per i1 giro in piazza al pomeriggio. Ma a Caldevigo scendono in cambio i torrentelli gorgoglianti, i "calti" pieni di musica che la primavera gonfia con le sue piogge armoniose. Da secoli hanno scavato sul pendio del colle rughe capricciose che cominciano dal nulla tra un campo e l'altro e finiscono giù al piano con un segno mancato, profondo.
L'acqua filtrata da polle nascoste tra l'erba, si raccoglie in fontane che dissetano uomini e bestie, si apre una via sotto la melma verde, ciangotta ai primi salti o scivola sotto la coperta di foglie morte, gorgoglia tra i gradini di calcare, morde le radici dei cespugli, leva il suo inno di vittoria sui massi precipitati a sbarrarle il cammino e canta, canta l'eterna melodia della vita e della gioia di vivere. Per questi "calti" bisogna salire alla ricerca del primo sole nei pomeriggi di marzo, ai piedi delle robinie inchinarsi per scorgere sotto le erbe morte dell'autunno i germogli novelli, lungo le rive aggrapparsi per cogliere le viole fresche, promessa di vita nuova tra un grigiore di arbusti e di spine. Canzone di acqua che scendi, profumo di terna che rinasci, memorie di giorni felici quando al colore della viola sòmigliava la veste di una fanciulla che era tutta la vita! I mandorli rinnovano ad ogni anno il miracolo dei fiori dischiusi sui rami stecchiti, le stelle dei biancospini si spalancano tra i pruni neri delle siepi, lungo i "calti" la vita riprende sotto le cose morte, tra le erbe intristite dal gelo, sugli arbusti, qui, prima che nella pianura. Salire a decifrare i messaggi della bella stagione può essere un gaudio per chi va alla ricerca, più che dei fiori e dei frutti, delle radici e dei primordi delle cose. E tutto qui sarebbe come ai primordi, se l'uomo, accontentandosi dei prodotti della terna non avesse bisogno della calce e del cemento, del sasso e del calcare che Caldevigo montano nasconde alle sue pendici. Ai tempi delle strade polverose e dei ponti di legno, il piccone, che aveva cominciato ad allargare qualche forra bianca per trarne il materiale da calce, sembrava l'unghiata di un neonato su una pelle rugosa. Ora che la fame di materie prime diventa ogni giorno più insaziabile, l'uomo ha aperto nel fianco di Caldevigo uno squarcio rossastro, crudele, ragionato. Un sentiero ombneggiato da cespugli di canne e di spine girava quasi tutto il ciglio della cava; intorno macchie di rovi tenaci ricoprivano in poco tempo i graffi dei picconi. Di lassù il sole al tramonto era uno spettacolo colossale. I contadini frugavano ai piedi degli arbusti la prima erba tenera; i ragazzi scorribandavano per quel paradiso di foresta casalinga; Bianca, il vecchio indaffarato misantropo ed estroso, dopo aver dormito nel "buco della volpe", andava alla ricerca delle chiocciole da vendere ai buongustai, quelle che si erano rintanate nell'autunno e che ancona dormivano nella casetta diligentemente otturata da una pellicola calcarea.
Nella cava gli uomini, assicurati con una corda ai cespugli, rodevano con tenacia le scaglie, soffermandosi ogni tanto ad asciugare il sudore o a lanciare un avviso a quelli di sotto che stava arrivando un pezzo eccezionale: qualche decina di chili in più del solito. Mesi di luglio inchiodati alla parete, tra il solleone e la polvere, con l'afa e il sudore! Le scaglie, frantumate a furia di braccia montavano, ancona a forza di braccia umane, sui cannelli per terminare, dopo una breve corsa, nella voragine del forno. Il modesto edificio, con la bocca superiore a livello della base della cava alta e con i suoi piedi ancora più in basso, pareva allora un mostro bonaccione che dalla ciminiera esalasse qualche boccata di fumo, non si sa se per isdegno o per compiacimento. Ingurgitava calcare bianco e rossastro, ruminava "carbonella" (oh, la prima volta in cui i vagoncini arrivarono alla bocca superiore tirati su con un montacarichi elettrico), restituiva il tutto trasformato in calce viva e una decina di operai per turno era più che sufficiente per le sue necessità. La "fornasa" dava una pennellata di progresso alla agreste periferia di Caldevigo e consentiva la vita ad alcune famiglie di cavatori e di carrettieri. Il verde intorno rimarginava presto le ferite dello scavo; il fumo si dissolveva pigramente nell'aria serena e l'unico rumore che frangeva il silenzio era dato dagli incitamenti dei carrettieri e dagli schiocchi delle fruste sulle groppe dei muli. Poi vennero i molini e il rumore diventò continuo e petulante; venne il cemento e il forno a botticella diventò un rudere medioevale; venne la produzione a catena e la "fornasa" si è trasformata in una bolgia dantesca. Capitare per darle un'occhiata, se possibile sotto la prudente guida del cavalier Piero, potrebbe essere relativamente facile; capire il perchè di tanti castelli, torri, passaggi, macchinari, imbuti, condotti, pulegge, tramogge diventerebbe alquanto difficile; resistere al turbinio e al frastuono infernale sarebbe senz'altro impossibile. Eppure dentro vi troviamo l'amico Mario, fantasma biancastro con le orecchie turate di bambagia. Si muove attorno ai manometri con la controllata noncuranza che solo l'esperienza sa dare; alza lo spioncino degli aspiratori preme ogni tanto un bottoncino rosso su un quadrante da cabina spaziale e registra chissà che cosa. Mario, caro compagno di giochi e di battaglie in quell'età felice che gode più del sole e delle gemme in boccio che delle ricchezze e delle comodità, che va paga più di promesse che di conquiste, ti abbiamo trovato prigioniero nella bolgia, mentre fuori c'era quell'invito prepotente della prima primavera e il nostro incontro aveva un sapore di cemento impastato di sudore e di lacrime. Ci piace il progresso; senza certe conquiste non sapremmo forse più vivere, ma in fondo al nostro cuore non può tacere la nota di tristezza che la poesia sacrificata sull'altare del progresso fa risuonare come eco di un bene perduto, quando a Caldevigo, sul biancore della polvere, tra li clangore delle macchine, dietro il pennacchio del fumo, fioriscono i mandorli e i ciliegi dei nostri Colli.