"Este come era "
un viaggio nel tempo, nella tradizione, in noi stessi
Veduta del paese
Non cercare l'indicazione della via Cero di Mezzo tra le carte topografiche, su una tabella stradale o sull'angolo di una casa: non troveresti proprio nulla. Su a Calaone non ne sanno il nome neppure gli autisti dei grossi autocarri che vi transitano almeno due volte al giorno per caricare la trachite dalle cave alte sotto il monte. Vi passano imprecando contro le buche del fondo stradale, schivano i rami dei pruni e delle robinie che spolverano la cabina di guida, si lasciano dietro un inferno di polvere nella stagione secca o una palude di melma quando piove. Per essi non può avere un nome quel tratturo diventato una sottospecie dl strada a furia di passarvi con tonnellate di pietrame. Eppure per Antonio Patati quella è la via che lo congiunge con la civiltà. La sua casa è un po' più sotto, ancorata su uno spuntone che si protende sulla pianura. Il prospetto guarda il sud per quella nostalgia di sole che hanno tutte le case dei Colli e per giungervi il viottolo che si stacca dalla carreggiata deve seguire un filare di viti e incastrarsi tra la roccia del monte e un fianco della casetta. La breve aia si riempie di luce e di pollame fin dal primo mattino. Poi, quando il sole muore all'orizzonte tra le brume della pianura, le ombre della sera sono le prime a prenderne possesso quietamente e saldamente. I campi di Antonio Patati, che qui tutti conoscono per Gino, si distendono più sotto. Rubati al fianco del colle, sono più un intreccio di filari che superfici per seminarvi grano. Tra i filari i ciliegi e i mandorli protendono ciuffi di candidi fiori o macchie di verdi foglie. C'è anche qualche albero di fico e qualche pero, oltre ai radi ulivi; ma la ricchezza di Gino sono le vigne e i ciliegi. Gliela lasciò il padre, il vecchio dagli enormi candidi baffi che dalla foto appesa alle pareti del tinello guarda ancora con i suoi occhi vispi di montanaro quelli che entrano a trovare Gino. Nella cucina accanto, l'antico focolare brucia da novembre a marzo le fascine del bosco che Gino ha procurato nell'autunno. Il crinale di monte che egli possiede gira sotto la casa e termina in una forra che chiamano il Calto della Pomara. La forra è più a tramontana che a ponente e perciò è lasciata da sempre a bosco. Quercioli, robinie, castagni prolificano per dare a Gino le fascine con cui riscaldarsi nell'inverno. Sulle pietre umide cresce il muschio che i ragazzi scendono a cogliere per ricoprire il presepio. Le larghe piastre di un verde rasato cavano esclamazioni di stupore dalla bocca della maestra o dei fanciulli signorini di città, ai quali i montanari offrono qualche cestello per ottenere la mancia natalizia. I pochi castagni secolari che sono rimasti a Calaone si stanno spegnendo melanconicamente per lo più lungo il Calto della Pomara. I parassiti ne bacano il dolce frutto, le larve ne assaltano la grossa corteccia. Qualche ramo spoglio alzà le dita stecchite tra il denso fogliame o precipita sui rovi, quando la tramontana mulina il suo canto di furore. Gino possiede anche un rettangolo di bosco sul fianco alto del monte Cero. Se la nebbia giù nella pianura seppellisce allo sguardo ogni cosa e si azzarda a risalire il Calto della Pomara, Gino sale più in alto, verso i quattrocento metri, dove il suo bosco vede il sole. Sotto l'insistente spirare del garbino le foglie dei roveri crocchiano come carte spiegazzate e gli arbusti ondeggiano sibilando. La quiete è grande. Solo i colpi della roncola accompagnano in selvaggio tam-tam il fischio del vento.
Veduta
A intirizzirmi come un beccafico lassù non ci resterei neppure un'ora. Ma Gino vi trascorre parecchie giornate della stagione più ingrata. Sale al mattino con la sporta e il fiaschetto del vinello. Pone al riparo di una ceppaia le sue provviste e attacca li settore stabilito, con gran lena. Ogni sterpo, pianticella o ciuffo cade sotto la roncola inesorabile e metodica. Si salvano soltanto certi alberelli dal tronco dritto dritto destinati a diventar manici di attrezzi o sostegni per la rustica barchessa di canne. Sulla cima del monte il progresso moderno ha installato congegni misteriosi per le sue radio e i suoi telefoni. La costruzione è cintata di muro, di rete metallica e di filo spinato e non ha bisogno di alcun uomo. Vi giunge saltuariamente un guardiano che compie una visita al muro, getta uno sguardo dentro i locali e se ne va. Più di una volta Gino si è trovato a consumare il suo pasto addossato al muretto, in faccia al sole. Più di una volta li guardiano gli ha detto benevolmente: - Entra, Gino. Dentro si sta meglio! -Ma Gino ha declinato ogni volta l'invito; ha offerto un bicchiere del suo vinello per farsi perdonare li suo rifiuto, ma non è sceso a compromessi. Libero come i cervi delle montagne che accettano la manciata di fieno nel rigido inverno e tornano all'alpe inospitale, Gino taglia il bosco avito, mastica il suo pane al riparo del progresso e fuma il suo trinciato guardando il mondo dall'alto. Una sola passione lo avvolge nelle sue spire: la caccia. Forse perché, verso i settant'anni, ne rimangono ben poche ad un uomo. Ma Gino è stato cacciatore da sempre. Da agosto a dicembre la doppietta non lo abbandona mai. Parte per vendemmiare e imbraccia il fucile; scende nella Pomara a tagliare il bosco e se lo porta dietro; sale sul monte sbuffando un po' per la fatica, ma non lo lascia a casa. Disperse per le tasche della giacca di velluto tiene sempre una manciata di cartucce. Nella quiete del castagneto un frullo d'ali risveglia echi improvvisi. Gino afferra l'arma, si acquatta tra i cespugli e attende col naso sospeso. Spesso val più li tempo che perde a cercar la preda piombata tra le foglie e i pungitopo che non il passerotto caduto sotto la sua mira sicura. Spesso anche la preda non si trova affatto tra l'intrico degli arbusti, ma Gino è felice. Nelle sue tasche le vittime si accumulano fino all'ora del ritorno e poi le distenderà sulla tavola davanti agli occhi esterrefatti dei nipotini. Ce n'è anzi uno che torna ogni anno dalla Svizzera per le ferie natalizie e non lo vuol mai abbracciare perché teme che il nonno estragga dalle tasche un uccellino stecchito. Tra le doppiette del borgo Gino è tenuto in gran conto, sia per la sua anzianità di età e di licenza di caccia, sia per la sua abilità. Una volta, anzi, approfittarono della sua fama per giocare un tiro birbone ad un altro cacciatore, formidabile per chiacchiere. All'osteria da Vittorio Cencio Merica era solito spararle grosse. Quanto più i bicchieri vuotati si accumulavano sul tavolo, tanto più grossi e più numerosi erano gli animali che egli asseriva di avere fulminati. Gli prepararono la trappola con cura; gli montarono la testa una domenica di fine settembre quando il moscato nuovo ha ancora una venetta di dolce che te lo fa mandar giù a boccali; consultarono Gino come un oracolo; gli diedero appuntamento per l'indomani verso l'imbrunire in un certo campetto di erba medica dove un leprotto aveva lasciato delle peste inconfutabili. Cencio travasò tutto il giorno appresso in casa sua e smise quando Gino, comparso 'col fucile sul vano della cantina, gli fece calare nel locale le ombre della sera. Partirono verso il campo dell'erba medica, internato per una stradicciola che abbandona la via comunale verso valle. Rallentarono. Gino lo guidò a cenni verso un pertugio della siepe, gli fece infilare la testa e Cencio scorse tra l'erba due orecchie dritte. Il cuore gli diede un balzo; prese la mira e sparò. La bestia fece una capriola e si mosse stranamente di un piccolo tratto - Tiragliene un'altra! gli disse Gino in un soffio. Un secondo sparo fece sobbalzare ancora l'animale. - Tiragliene un'altra! - gli gridò Gino. Cencio lasciò partire altri colpi, finchè dalla sagoma sforacchiata uscirono i fili gialli di paglia. Si trattava di una pelle di coniglio imbottita, che i compari nascosti al limitare del campetto tiravano con uno spago tra l'erba medica. Cencio continua da allora a spararle grosse, ma soltanto quando sono passati sul suo tavolo diversi boccali. Gino cacciatore è stato da sempre. Aveva sedici anni quando il padre se lo condusse in Germania a trasportare i secchi di malta per i muratori. Lasciò le colline natali per le pianure sconfinate del Nord, il villaggio di poche case per le grandi città affacciate sul Reno. Poi li padre lo lasciò solo e Gino scoprì la sua passione di cacciatore, cominciando a girare attorno alle fraulein. Ricorda ancora una prosperosa Marica, nella cui casa alla periferia. di Magonza aveva trovato alloggio. In quella casa una sera di luglio il postino recò un telegramma: il padre era stato ricoverato all'ospedale, partisse subito.
Vista sulla Rocca di Monselice
fotografia del 1907