"Este come era "
un viaggio nel tempo, nella tradizione, in noi stessi
Esterno del ristorante rinnovato
L'occhio di un portico, che in una contrada del centro, subito al di qua dei ponti, riveli ancora il volto di un luogo degno di un rigo di storia e colorato di tradizioni, non è facile trovare anche nella nostra Este dove, nonostante l'indolente lentezza, il progresso edilizio giunge di tanto in tanto a mutare l'aspetto e la funzione di case e di palazzi, di chiese e di strade. Se cerchi l'insegna luminosa dell'antica Trattoria del Gambero, o anche più semplicemente una qualsiasi scritta che ti conduca al banco di mescita del vino nostrano, non troverai di certo nè l'uscio, nè il vecchio nome. C'è, sì, qualche pubblicità della birra o qualche réclame dell'acqua minerale, ma è cosa troppo modesta e di scarso richiamo. D'estate almeno vedi un tavolo sotto il portico, quattro sedie e uno o due avventori che gustano il loro quartino all'ombra che il grande caseggiato proietta sulla strada assolata. Per il resto bisogna orientarsi "a naso", o seguire gli affezionati clienti che non mancano mai di far visita al sito in qualsiasi ora del giorno. Eppure la trattoria del Gambero non è in capo al mondo: nell'isolato che dal Ponte della Porta Vecchia si protende lungo via D'Azeglio, tre o quattro porte dall'inizio del portico. La facciata, buia sotto l'arco basso, ha l'uscio sopra due scalini: una portiera a vetri che sa di secoli, due finestre velate da tendine a fiori e un lucernario riquadrato da inferriata. In antico, anche le due finestre avevano la loro brava inferriata a garanzia di tranquillità per osti e avventori. Nella sala d'ingresso, il soffitto è ancora a botte con le sue lunette, il che lo fa risalire molto indietro nel tempo, a quando per lo meno non c'era il cemento armato; alle pareti alcune stampe raffigurano battaglie della guerra d'Africa 1886; i tavoli verniciati di marron con le sedie di paglia attendono i clienti. La parete di fondo ha il banco tenuto diligentemente sgombro, perchè una scansia alle spalle raccoglie tutto l'occorrente; una apertura ad arco reale ti fa vedere le botti allineate, le damigiane, i fiaschi e una porta che conduce in cucina. Sali un gradino e il breve spazio contiene tutta la riserva del vino in pochi fusti; quando son vuoti, si fa tanto presto a riempirli che non val proprio la pena di tenere impegnati tanti recipienti ingombranti. Però questa cantina così alla luce del sole dà un tono di confidenza familiare: lo vedi il vino che zampilla dalla spina o dalla cannula trasparente, che va a riempire la caraffa o la misura di vetro. Qui non c'è trucco, nè tempo o spazio per battesimi truffaldini, la botte dà quello che ha e durante il travaso non riceve manomissioni di sorta. Un tempo e in qualche altro sito, il ricettacolo delle botti era il sacrario inviolabile dell'osteria, in esso poneva piede soltanto il padrone. Qui al Gambero, invece, è stato sempre un locale aperto a tutti, addirittura di transito per passare nel più intimo della trattoria e bene illuminato per poter scorgere le etichette, i sigilli e le ceralacche del dazio.
Le botti alle pareti
I pavimenti sono di mattoni rossastri allineati puliti; sotto i recipienti, per evitare le macchie del "moro" ci sono piattini disposti in ordine; non si vedono segni di ragnatele o di fumo, anche se la tinta giallognola sugli intonaci non è l'ultimo grido in fatto di eleganza e di abbellimento. Il cucinone è quasi diviso in due parti da un grande arco, messo lì non si sa per quale ragione di statica. La luce viene da due alte finestre che occhieggiano sul Bisatto e nelle giornate grigie filtra appena dalle tendine, lasciando tutto in una penombra discreta. Una porticina a vetri conduce. sulla sinistra, al cortiletto imbottigliato tra i fabbricati contigui; una volta anzi era possibile arrivare attraverso una calle fino alla Porta Vecchia, come si può vedere tuttora dalla parte opposta della torre in quell'isolato che fu nel '500 il ghetto degli ebrei. Fino a pochi anni fa, una scala di legno saliva in quel punto fino al piano superiore riservato all'abitazione del proprietario. Ora la scala è scomparsa a spese dello spazio destinato alla cantina; si vede che allora si curava meno l'estetica che la disponibilità di botti ricolme. Un credenzone, con la mostra sotto vetro delle specialità della trattoria, separa i tavoli dal regno della padrona che va rimescolando in una "ramina" la polenta gialla, piatto forte della casa, sempre pronto. In antico era qui il grande focolare con la nera cappa tra le due finestre e "l'arola" quasi da una parete all'altra. Attorno, nelle sere del gelo e della nebbia, sedevano gli avventori e protendevano le mani alla fiamma del ciocco che scaldava per davanti e lasciava le spalle in preda agli spifferi che sopraggiungevano a folate con l'ingresso di altri clienti. " Disembre, par davanti el te scalda, par da drio el te insende" Allora padron Meni, detto " Màsaro" per via del riccio di capelli che gli si alzava sulla nuca grassa sotto la nera papalina da speziale, mesceva dal capace boccale di terracotta il brulè alla cannella o al chiodo di garofano per gli intirizziti avventori che si scuotevano sotto il grande mantello. La " siora Luigia " caricava legna sul focolare e riattizzava le braci, muovendosi silenziosa tra la cucina e la saletta di sinistra dove i clienti affaccendati con le carte da gioco reclamavano vino per la loro arsura. Erano i primi tempi del Regno d'Italia che aveva finalmente incorporato il nostro Veneto nonostante la sfortunata campagna del 1866, tempi nei quali, passata l'euforia dell'unificazione, bisognava pensare agli italiani ancora divisi da rivalità medioevali e da concezioni politiche contrastanti. Padron Meni e siora Luigia ricordavano la loro giovinezza trascorsa nel periodo arroventato: lui estense di ceppo, della famiglia Monselesan, proprietaria della trattoria e di quella parte dell'isolato fino alla Porta Vecchia; lei dalmata di Spalato, della famiglia Dadik dal nome slavo ma di sangue veneto fino al midollo.
Interno con caminetto
Sala con caminetto